il Senso Religioso | REALISMO

Estratto da: Luigi Giussani, il Senso Religioso, prima premessa: Realismo


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Di che si tratta

Per affrontare il tema del senso religioso in modo sgombro da equivoci e perciò più efficace ricondurrò la metodologia di tale lavoro ad una triplice premessa.

Nell’abbordare la prima di esse vorrei citare come punto di approccio una pagina dal libro Riflessioni sulla condotta della vita di Alexis Carrel: «Nello snervante comodo della vita moderna la massa delle regole che danno consistenza alla vita si è spappolata; la maggior parte delle fatiche che imponeva il mondo cosmico sono scomparse e con esse è scomparso anche lo sforzo creativo della personalità… La frontiera del bene e del male è svanita, la divisione regna ovunque… Poca osservazione e molto ragionamento conducono all’errore. Molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità».

La nostra, prosegue Carrel, è un’epoca di ideologie, nella quale cioè invece che imparare dalla realtà in tutti i suoi dati, costruendo su di essa, si cerca di manipolare la realtà secondo le coerenze di uno schema fabbricato dall’intelletto: «così il trionfo delle ideologie consacra la rovina della civiltà».

2. Il metodo di ricerca è imposto dall’oggetto: una riflessione sulla propria esperienza

Questo brano di Carrel ha bene introdotto il titolo della prima premessa: per una indagine seria su qualsiasi avvenimento o «cosa», occorre realismo.

Intendo con questo riferirmi all’urgenza di non privilegiare uno schema che si abbia già presente alla mente rispetto alla osservazione intera, appassionata, insistente del fatto, dell’avvenimento reale.

È chiaro comunque che, prima di ogni altra considerazione, dobbiamo affermare che proprio di un fatto si tratta, anzi del dato di fatto statisticamente più diffuso nell’attività umana. Non esiste infatti attività umana che sia più vasta di quella individuabile sotto il titolo «esperienza o sentimento religioso».

Essa propone all’uomo un interrogativo su tutto ciò che egli compie, e viene perciò ad essere un punto di vista più ampio di qualunque altro.

L’interrogativo del senso religioso come rivedremo è: «che senso ha tutto?», e dobbiamo riconoscere che si tratta di un dato emergente nel comportamento dell’uomo di tutti i tempi, e che tende ad investire tutta l’attività umana.

Se dunque noi vogliamo sapere come sia questo fatto, in che cosa consista questo senso religioso, il problema di metodo ci impegna subito in modo acuto.

Come affronteremo tale fenomeno per essere sicuri di riuscire a conoscerlo bene? Occorre dire che la maggior parte delle persone si affidano in questo coscientemente o incoscientemente a quello che dicono gli altri, e in particolare a quello che dicono coloro che contano nella società: per esempio, i filosofi che l’insegnante spiega a scuola, i giornalisti che normalmente scrivono sui quotidiani e sui periodici che determinano l’opinione pubblica.

Come faremo a sapere che cosa è questo senso religioso: studieremo dunque quel che ne dice Aristotele, Platone, Kant, Marx o Engels? Potremmo anche far così, ma usare innanzitutto questo metodo è scorretto. Il motivo è che non si può su quest’espressione fondamentale dell’esistenza dell’uo-mo abbandonarsi al parere di altri, per esempio assorbendo l’opinione più in voga o le sensazioni determinanti l’aria che respiriamo.

Il realismo esige che, per osservare un oggetto in modo tale da conoscerlo, il metodo non sia immaginato, pensato, organizzato o creato dal soggetto, ma imposto dall’oggetto.

Ora, che tipo di fenomeno è l’esperienza religiosa? Essa è un fenomeno che attiene all’umano, pertanto non può essere trattata come un fenomeno geologico o meteorologico.

È qualcosa che riguarda la persona. […] Mi occorre un’indagine su me stesso, un’indagine esistenziale. Se non si partisse dall’indagine esistenziale, sarebbe come chiedere la consistenza di un fenomeno, che vivo io, ad un altro.

Evitare l’alienazione in ciò che altri dicono, non esime dalla necessità di dare un giudizio su quanto in se stessi si è trovato nel corso della indagine. Senza una capacità di valutazione infatti l’uomo non può fare alcuna esperienza.

Vorrei precisare che la parola «esperienza» non significa esclusivamente «provare»: l’uomo sperimentato non è colui che ha accumulato «esperienze» fatti e sensazioni facendo, come si dice, di ogni erba un fascio. L’esperienza coincide, certo, col «provare» qualcosa, ma soprattutto coincide col giudizio dato su quel che si prova.

Criterio per la valutazione

Domandiamoci allora: qual è il criterio che ci permette di giudicare ciò che vediamo accadere in noi stessi? Due sono le possibilità: o il criterio in base al quale giudicare ciò che si vede in noi è mutuato dal di fuori di noi, o tale criterio è reperibile dentro di noi. Nel primo caso ricadremo nell’evenienza alienante che abbiamo descritto prima.

Se anche avessimo svolto un’indagine esistenziale in prima persona, rifiutando perciò di rivolgerci ad indagini già svolte da altri, ma prelevassimo da altri i criteri per giudicarci, il risultato alienante non cambierebbe. Faremmo ugualmente dipendere il significato di ciò che noi siamo da qualcosa che è fuori di noi.

L’esperienza elementare

Tutte le esperienze della mia umanità e della mia personalità passano al vaglio di una «esperienza originale», primordiale, che costituisce il volto nel mio raffronto con tutto. Ciò che ogni uomo ha il diritto e il dovere di imparare è la possibilità e l’abitudine a paragonare ogni proposta con questa sua «esperienza elementare».

In che cosa consiste questa esperienza originale, elementare? Si tratta di un complesso di esigenze e di evidenze con cui l’uomo è proiettato dentro il confronto con tutto ciò che esiste.

La natura lancia l’uomo nell’universale paragone con se stesso, con gli altri, con le cose, dotandolo come strumento di tale universale confronto di un complesso di evidenze ed esigenze originali, talmente originali che tutto ciò che l’uomo dice o fa da esse dipende. Ad esse potrebbero essere dati molti nomi; esse possono essere riassunte con diverse espressioni (come: esigenza di felicità, esigenza di verità, esigenza di giustizia, ecc…). Sono comunque come una scintilla che mette in azione il motore umano, prima di esse non si dà alcun movimento, alcuna umana dinamica.

Una madre eschimese, una madre della Terra del Fuoco, una madre giapponese danno alla luce esseri umani che tutti sono riconoscibili come tali, sia come connotazioni esteriori che come impronta interiore. Così quando essi diranno «io» utilizzeranno questa parola per indicare una molteplicità di elementi derivanti da diverse storie, tradizioni e circostanze, ma indubbiamente quando diranno «io» useranno tale espressione anche per indicare un volto interiore, un «cuore» direbbe la Bibbia, che è uguale in ognuno di essi, benché tradotto nei modi più diversi.

Identifico in questo cuore ciò che ho chiamato esperienza elementare: qualcosa cioè che tende ad indicare compiutamente l’impeto originale con cui l’essere umano si protende sulla realtà, cercando di immedesimarsi con essa, attraverso la realizzazione di un progetto, che alla realtà stessa detti l’immagine ideale che lo stimola dal di dentro.

L’uomo, ultimo tribunale?

Abbiamo detto che il criterio per giudicare del proprio rapporto con se stesso, con gli altri, con le cose e con il destino è totalmente immanente all’uomo, secondo il suggerimento della struttura originale.

Ma nella convivenza umana ci sono miliardi di individui che si paragonano con le cose e con il destino: come sarà possibile evitare una generale soggettivizzazione? Vale a dire, il singolo uomo avrebbe tutto il potere di determinare il suo significato ultimo e quindi delle azioni ad esso tese: non sarebbe questo un’esaltazione dell’anarchia, intesa come idealizzazione dell’uomo qua le ultimo tribunale?

La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito: l’anarchico è l’affermazione di sì all’infinito e l’uomo autenticamente religioso è l’accettazione dell’infinito come significato di sé.

Ascesi per una liberazione

Direi allora: se si vuole diventare adulti senza essere ingannati, alienati, schiavi di altri, strumentalizzati, ci si abitui a paragonare tutto con l’esperienza elementare.

In realtà così propongo un compito non facile e impopolare. Di norma infatti tutto viene affrontato secondo una mentalità comune: sostenuta, propagandata da chi nella società detiene il potere.

Cosicché la tradizione familiare, o la tradizione del più vasto contesto in cui si è cresciuti, sedimentano sopra le nostre esigenze originali e costituiscono come una grande incrostazione che altera l’evidenza di quei significati primi, di quei criteri, e, se uno vuoi contraddire tale sedimentazione indotta dalla convivenza sociale e dalla mentalità ivi creatasi, deve sfidare l’opinione comune.

La sfida più audace a quella mentalità che ci domina e che incide in noi per ogni cosa dalla vita dello spirito al vestito è proprio quella di rendere abituale in noi il giudizio su tutto alla luce delle nostre evidenze prime, e non alla mercé di più occasionali reazioni.

Il modo di concepire il rapporto tra l’uomo e la donna, per esempio, benché vissuto come fatto intimo e personale, è in realtà ampiamente determinato sia dalla istintività propria, che crea valutazioni per nulla in linea con l’esigenza originale dell’affetto, sia dall’immagine di amore creatasi nell’opinione pubblica.

Occorre perforare sempre tali immagini indotte dal clima culturale in cui si è immersi, scendere a prendere in mano le proprie esigenze ed evidenze originali ed in base a queste giudicare e vagliare ogni proposta, ogni suggerimento esistenziale.

L’uso dell’esperienza elementare, o del proprio «cuore», è dunque impopolare soprattutto di fronte a se stessi, poiché quel «cuore» appunto è l’origine dell’indefinibile disagio da cui si viene presi quando, ad esempio, si è trattati come oggetti di interesse o di piacere.

Incominciamo a giudicare: è l’inizio della liberazione. Il ricupero dell’esistenziale profondo, che permette questa liberazione, non può evitare la fatica di andare controcorrente.

Si potrebbe chiamare lavoro ascetico, dove con la parola ascesi si indica l’opera dell’uomo in quanto cerca la maturazione di sé, in quanto è direttamente centrato sul cammino al destino. È un lavoro, e non è un lavoro ovvio; è qualcosa di semplice, ma non scontato.

Quanto finora detto è da riconquistare, ma viviamo in un’epoca in cui l’esigenza di tale riconquista è più chiara che mai, benché in ogni tempo l’uomo abbia dovuto lavorare per riconquistare se stesso. In termini cristiani questa fatica fa parte della «metanoia», o conversione.