L’AVVENTURA DELL’EDUCARE

INCONTRO CON ALBERTO BONFANTI

da centriculturali.org

“I ragazzi non sono vasi da riempire, ma fuochi da accendere”. Chi non è immediatamente attratto da questa prospettiva, sentendo descritto in questa frase il lavoro di educazione nel suo lato pi ù vero ed umano, di rischiosa e affascinante avventura?
Sabato 24 gennaio a Roma presso il centro giovanile “Il Centro” ne hanno parlato un centinaio di adulti, genitori ed insegnanti, in occasione del terzo incontro della serie “Il compito di educare” . Ospite e testimone è Alberto Bonfanti, insegnante di Filosofia e anima del centro di aiuto allo studio “Portofranco”, opera educativa che da Milano si è ormai estesa in diverse città italiane. La frase, racconta Bonfanti, campeggia all’ ingresso di Portofranco, assieme al famoso verso “ Fatti non foste … ” dell ’ Ulisse dantesco.
Bonfanti descrive con semplicità e concretezza l ’esperienza dei quindici anni di attività del centro, del lavoro di ogni pomeriggio, della realtà bella che si è costruita nel tempo, con centinaia di ragazzi e decine di volontari che ogni pomeriggio si ritrovano a condividere la fatica e la passione dello studio. Racconta di come, prendendo sul serio il bisogno concretissimo dei ragazzi di avere un aiuto nello studio, si finisca per condividere la propria persona, ritrovandosi ad essere compagni ed amici per la vita; racconta storie di ragazzi che, da a un rapporto nato per lo studio, arrivano cambiare l ’intera immagine di sè e della vita.
Innanzitutto, accendere vuol dire risvegliare il cuore, mettere in gioco l’io, aiutare a prendere coscienza di sè . Ma chi può accendere il fuoco? Solo qualcuno che sia già acceso, come sono innanzitutto le persone appassionate a quello che fanno. Bonfanti ricorda una domanda da lui stesso posta al professor Rigotti, famoso docente di Linguistica ed esperto di educazione e comunicazione: come mai nell’attività di aiuto allo studio spesso i giovani universitari, che non hanno esperienza di insegnamento, riescono a far compiere passi da gigante ai ragazzi, a volte meglio degli insegnanti? Risposta del professore: “ Perché sono in ricerca, sono appassionati, e solo un insegnante in ricerca può appassionare”.
Bonfanti poi getta luce su un altro aspetto fondamentale nell’esperienza di Portofranco: l’esperienza della gratuità . Uno sguardo libero sull’altro, libero dal calcolo, dal tornaconto, dalla pretesa, mette in moto. “Mi hanno insegnato che valgo qualcosa” ha detto una ragazzina. Tutti misurano, ma solo uno sguardo che cerca di accoglierti per quello che sei ti libera. Vivere la gratuità nasce dall’esperienza della sovrabbondanza: tutta la gente che collabora a Portofranco, dai giovani universitari agli anziani insegnanti in pensione, viene perchè vuole fare un gesto per sè , per educarsi a questo sguardo di gratuità. Non misura. E ci ò non è mai scontato. Non basta aver fatto, ma bisogna fare sempre di nuovo questa esperienza di gratuità , altrimenti si finisce per misurare. Come ha capito quell’educatore che, dopo aver appreso di come una ragazzina da lui seguita si stesse allontanando su una strada sbagliata, davanti alla sua delusione si è sentito chiedere: “ Ma tu le vuoi ancora bene? ”. Perché solo così non si misura, volendo bene anche quando l’altro non cambia, anche quando ti rifiuta. Il segreto della gratuità è che non può che essere un’esperienza. Con la certezza di questa esperienza si può guardare l’altro e non misurarlo. E anzi, chi guarda con gratuità, arriva a riceverla da colui a cui la dona.
Terzo: questa esperienza incendia, cio è genera una società nuova. Portofranco è frequentata da ragazzi di ogni ceto sociale e di diversissima provenienza. Molti sono immigrati, di tantissime etnie, e mai c’è stato qualche problema di integrazione. Ognuno è una persona, un amico. E si diventa amici sull’esperienza umana, sul cuore: la gratuità vissuta permette di incontrare chiunque. Bonfanti racconta storie di amicizia e gratuità , come quella della suora salesiana che collabora con Portofranco, e ora porta questa esperienza anche in carcere. O quella di un ragazzo che frequentava una delle gang violente di Milano, che frequentando Portofranco e facendo un’esperienza di vera amicizia dice “non riesco più ad essere come prima”. Anche questo è un giudizio sull’oggi: Bonfanti sottolinea la responsabilità che i cristiani hanno in questo senso, per la pienezza di vita che possono testimoniare. Non per convertire nessuno, dice, ma per incontrare chiunque. In questo senso, osserva, la descrizione che Gustave Bardy nel suo La conversione al cristianesimo nei primi secoli fa delle prime comunità cristiane ha dei punti di tangenza con la situazione odierna, quando è proprio l’accoglienza senza calcoli dell’altro che può cambiare la cultura e quindi la società.
La conversazione diventa anche un giudizio chiaro sulla scuola, così spesso soffocata dalla burocrazia o dall’abitudine rassegnata. I ragazzi cercano il senso di quello che studiano. Si studia per una preferenza. La scuola è in fondo una convenzione sociale, se non diventa il “luogo dell ’ incendio ” . Il bisogno dei ragazzi è soprattutto un bisogno di significato, un significato che permetta di affrontare anche la fatica che lo studio comporta, che introduca un’ipotesi ppositiva nella realtà che lo studio affronta. D ’ altra parte, dice Bonfanti riecheggiando il suo maestro don Pontiggia, quando il figliol prodigo si allontana di casa, suo padre è certo di due cose: il ragazzo ha un cuore, ed ha fatto un’esperienza di casa. E questo basta. Il nostro migliore alleato, dice Bonfanti, è il cuore dei ragazzi.
(Teresa Succi, Roma)